Torno da Mostar con impressioni aggrovigliate, forse mi serve tempo per metabolizzare, capita. Oggi si può passare da una sponda all’altra del fiume Neretva senza alcun pericolo. Oggi si può camminare nel centro senza alcun problema. Oggi ha un sapore strano, la ricostruzione di quel ponte “com’era dov’era” come soluzione simbolica ai danni della guerra e la ricetta del ritorno agli antichi splendori sembra essere stata adottata, a Mostar come in molte altre città.
A me non convince.
Oggi Mostar è una città sdoppiata. C’è quella ricostruita da cartolina, piena di merletti, pashmine e di souvenir, che tutto sommato ha fatto fortuna sulla disgrazia della guerra, visitata da un sacco di turisti dalla Dalmazia in giornata. L’immagine ricomposta di un dialogo tra culture diverse, le casette a due piani, dal colore caldo della pietra tenelija ai tetti a lastre, alcuni edifici vengono soprelevati “in stile”. Gli echi della Turchia li senti dappertutto, all’improvviso mi sembra di essere tornata a Istanbul.
E poi c’è la Mostar delle granate, dei ruderi, delle facciate sventrate dai colpi di mortaio, dei cimiteri dietro l’angolo in pieno centro dove tantissimi sono morti nel 1993. E le lapidi infilate una dietro l’altra a ricordarli. E il magone che ti viene a camminarci in mezzo, il bianco del marmo in mezzo all’erba e il significato che lascia. La storia della ex-Jugoslavia la conoscete tutti. I croati, che prima avevano combattuto insieme ai bosniaci contro i serbi, tradirono gli alleati musulmani, distruggendo la parte orientale della città. Mostar Ovest quartieri croati cattolici, Mostar Est terra bosniaca, etnia musulmana.
Il monito Stari Most: don’t forget 1993, inciso su una pietra del nuovo ponte è bellissimo, niente da dire… ma la sensazione è un’altra, è che siamo lontani da una visione comune, che siano ancora parole. Oggi Mostar ha un nuovo ponte, un nuovo Stari Most. Idealmente uguale a quello di prima. Eppure chi abita qui dice che è totalmente diverso, sente la differenza sotto i piedi. E ricorda gli anni di doppio servizio postale, doppia centrale elettrica, doppia squadra di calcio, doppio acquedotto. Tutto doppio perché ogni religione voleva il suo. L’altro per i musulmani era il traditore fraterno.
E insieme al nuovo Stari most, sono arrivate altre costruzioni. E’ stata finanziata la costruzione di nuove moschee, la comunità cattolica ha voluto una chiesa fuori scala rispetto al contesto, col suo campanile tronfio e felice di guardare dall’alto i minareti. Entro in un negozio e un vecchietto sdentato parla un miscuglio di lingue, per lui la valuta non è un problema, accetta euro, dollari, kune croate o marche bosniache. Va bene tutto, a parte di non parlare del ponte. Troppo chiasso. E poi si lascia scappare: “Che tristezza, è come se dopo averlo distrutto, avessero voluto cancellarne anche il suo fantasma”.
“Era quel simbolo, e non il manufatto, che si era voluto colpire. La pietra non interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interesse strategico. Non serviva a portare armi e uomini in prima linea. Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell’appartenenza e dell’alleanza tra mondi che si volevano a tutti i costi separare”.
Paolo Rumiz, “La Repubblica”, 2 novembre 2003
Le città si identificano con i loro edifici. Mostar aveva per tessera un ponte a schiena d’asino costruito nel 1566 da un maestro d’opera venuto dalla Turchia. Qualche anno dopo, Erri De Luca scrive:
«Il gesto di distruggere un ponte resta per me un’offesa misteriosa, più profonda della semplice demolizione di un manufatto. Porta con sé un oltraggio, una mano che strappa via i punti di sutura di una ferita. Perciò ricostruire un ponte mi consola come un atto di medicazione, una cura prestata che rimette in piedi e in cammino una comunità. Il ponte vecchio di Mostar, a cavallo della Neretva verde come l’anima dell’aglio, ritornerà alla sua linea antica, con qualche sua pietra salvata e ripescata dal fiume e il resto rifatto tale e quale. Sarà nuovo perciò, curvo sull’acqua ma senza peso di secoli e di passi sulle spalle. Desidererà invecchiare di nuovo, rinnovare dal suo punto più alto i tuffi delle generazioni dentro la corrente».
(Erri de Luca)
Infatti è ripresa la tradizione dei tuffi nella Neretva. I ragazzi bosniaci, sfidando il meteo, si gettano ancora dal “vecchio ponte”, provando a cancellare le tracce del passato. I famosi “skokovi” (tuffi) erano un evento a cui partecipavano ragazzi provenienti da tutta la ex Jugoslavia. Per i ragazzi cresciuti intorno al velocissimo e freddissimo fiume Neretva ha sempre rappresentato una sfida. Un attimo di tensione, e un lungo balzo nel vuoto. Da vedere.
Mostar prova, iniziando dalle pietre del suo ponte, a ritrovare un’immagine unitaria….ma la strada penso sia ancora molto lunga. Un monumento è solo un biglietto da visita, un primo passo che non mi fa illudere. Le ferite da sanare ci sono, i segni uscendo dal piccolo centro storico evidenti, le moschee ridotte in macerie. La vita continua eppure l’immaginazione è frenata dalla vista delle cicatrici e mi lascia andare via con molte domande e molti dubbi nella testa. Eppure mi piace questo posto. E non perchè c’è stata una guerra o voglio fare il pellegrinaggio nei luoghi del dolore. Non mi interessa proprio.
Forse più semplicemente mi trovo a mio agio nei posti di confine, dove si mescolano i punti di vista. Si mischiano le acque di culture diverse. Si incontrano i sapori e le forme, i visi e i nomi di paesi e storie diverse. Qui a Mostar si scontrano e si intrecciano. Forse perchè non mi sono mai sentita del tutto legata ad una particolare terra, ad un particolare posto. Forse perchè sono ligure, cresciuta in un porto di mare, da una mamma piemontese e da un padre campano che ha girato mezza Italia, forse perchè mio nonno è emigrato a lavorare in Brasile, forse perché ho sposato un lombardo e vissuto da nomade in tante città diverse e appena posso mi piace conoscere il mondo. Senza una terra precisa. Ecco, tutto qui 🙂
un itinerario stupendo che mi ha incuriosito. Anche a me i posti di confine e di storia fanno impazzire.
Bel reportage!!
grazie, diciamo che può essere l’inizio di un itinerario più lungo e pieno di spunti nei Balcani 🙂
giusto due giorni fa ho messo la seconda parte di un post dedicato a Mostar. Io ho avuto la fortuna di vedere anche l’originale Stari Most nel 1989 e tornata a casa avevo fatto il tema a piacere delle vacanze proprio sul ponte. Quando nel 93 mia mamma mi chiamò urlando “vieni Chiara, hanno distrutto il Ponte di Mostar” eravamo tutti tristi. Mia mamma commentò “Abbiamo visto un pezzo di storia Chiara, ricordati questo giorno” e forse si riferiva ai viaggi fatti in Jugoslavia quando ancora non c’era quel prefisso “ex” a imbruttire il tutto. Ho visto un Paese che viveva mescolando culture, radici, religioni come forse nessun altro Paese in Europa. Mi assomigliava. Comunque visivamente il ponte è proprio bello…
appena riesco vengo a leggermelo 😀
a noi mostar è piaciuta tantissimo. ed è stata ugualmente struggente e straniante. ho portato lì i miei figli e spero si ricordino questo viaggio. hanno visto i muri ancora rotti dalle granate, le tombe con le date del 1993 nei cimiteri cittadini, le case turche che raccontano tante storie. mostar fa parte di un pezzo della nostra storia che spesso preferiamo non vedere anche se avevamo l’età giusta per esserne indignati.
Grazie Clara del tuo commento, Mostar in effetti è lì come un monito e una speranza: che gli uomini e le donne continuino a vivere fianco a fianco senza vendette e senza rancori.
Gran bel racconto. E finalmente un luogo particolare, non uno dei soliti… Triste, malinconico più che altro. Ma bello
Si, Roberta, stupita anch’io che l’abbiano scelto, un luogo che forse merita più di altri attenzione. Monica