Myanmar: la Birmania ancora sulla pelle

Sono appena tornata da Myanmar, o Birmania se preferite, e sono un po’ persa tra lo stordimento dovuto al cambiamento del fuso orario, l’intorpidimento dovuto al freddo italiano (20°C in meno), l’insofferenza per i vestiti pesanti e la tristezza ispirata dal grigiore padano (dopo 18 giorni di sole pieno). Il viaggio d’altronde segue un principio base: è ciclico, ha un inizio e una fine, un’andata e un ritorno.

“Il viaggio perfetto è circolare. La gioia della partenza, la gioia del ritorno.
(
Dino Basili)

Sono qui, con una testa di Buddha in pietra che mi guarda coi suoi occhi socchiusi dalla scrivania e un grande cappello a punta di bambù, che ostinatamente mi sono portata dietro, da una palafitta sul lago Inle su aerei, barche, tuk-tuk e pulmini fino a casa. E una valigia piena di ricordi ancora da metabolizzare, da elaborare, da cui ripartire in questo nuovo anno. La Birmania ancora sulla pelle, come la polvere di thanakha che ogni donna birmana non rinuncia a mettersi sul viso.

 

Burma_face_1

 

Negli occhi una confusione felice: ogni villaggio, ogni mercato, le borse di cotone colorate e i longy annodati sul fianco, i vassoi di pesce secco, le collane votive di gelsomino e le foglioline d’oro da appiccicare alle statue o alle pagode, le donne Shan con i turbanti a quadri colorati annodati a ricordare la forma di un drago, le bocche rossastre di betel degli uomini, la verdura in bella mostra sulle stuoie, i piedi nudi e rossi di terra ogni volta che si entra nell’area dei templi, le ceste di bambù, l’odore forte dei mercati birmani, qualche donna che fuma grandi sigari di granturco, i lunghi capelli neri lucidi, i piccoli monaci a elemosinare in fila indiana, i carretti trainati dai buoi, le giovani donne dalle teste rasate e dalle tuniche rose, le migliaia di pagode incontrate che non ci si può credere, i tramonti pennellati d’arancio. Tanta vita. Tante differenze.

Ecco, giusto per dire la marea di flashback che ora popolano i miei ricordi. Con un’unica sensazione su tutte: tornare dopo questo viaggio, rispetto ad altre mete che è stato bellissimo attraversare, ma in fondo non mi hanno coinvolto e raccontato così tanto, è stato più difficile del solito. Perché la Birmania è una destinazione sorprendente anche per il viaggiatore più disincantato, quello che ha visto e percorso tanti angoli di mondo, e non per la sua storia millenaria, le sue infinite pagode, i suoi ritmi lenti, ma soprattutto per la sua gente, legata all’indispensabile, all’essenza, alle tradizioni, agli spiriti e alla superstizione, al donare oggi quel poco che ha per avere una vita migliore in una reincarnazione futura. Un paese splendido e pieno di gente semplice, autentica, accogliente, il vero oro di questa terra. Questo è stato un viaggio in una terra speciale, come non mi capitava da tempo.

Ed è per questo che non riesco a snocciolare subito post utili da brava travel blogger, itinerario di viaggio, consigli pratici, link e compagnia cantante. Mi serve tempo per capire, prima di tutto, per distaccarmi da quanto vissuto, perché a me non interessano le quantità (e di sicuro ve ne siete accorti se avete letto qualche mio post o visto come è impostato il blog), interessa scrivere qualcosa che abbia un senso per gli altri e per me, e sia capace di trasmettere l’emozione che ho provato io in Myanmar. Che è stata tanta, soprattutto in alcuni momenti. Un viaggio che mi sembrerebbe di banalizzare o di tradire, scrivendo qualcosa nell’immediato.

In attesa di selezionare il marasma di fotografie portate a casa e soprattutto iniziare a scrivere qualcosa di un po’ più articolato di questo primo post “di pancia”, vi lascio qualche volto di questa terra favolosa, che è stato un vero onore poter conoscere da vicino.

 

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